In questo documento
vengono trattati due elementi fondamentali e costitutivi di ogni pratica
gestionale di successo in ambito produttivo. La necessità di determinare quali
siano i fattori di successo nella conduzione di un impianto o di una fabbrica
ha fatto sì che ogni anno venisse prodotta una mole considerevole di studi
sulle migliori pratiche di
management.
In questo documento per prima cosa verrà mostrato quale approccio
alla produzione è stato sviluppato dalla TOC (teoria dei constraint) e quali risultati ha prodotto.
In secondo luogo si discuterà
delle barriere che si oppongono al cambiamento in ambito produttivo e di come
la TOC può essere utilizzata per superarle.
L'approccio TOC alla produzione va sotto il nome di
Drum-Buffer-Rope (da qui in avanti si userà l'acronimo DBR), che è stato
ampiamente descritto nei libri del dr. Goldratt L'obiettivo (The Goal
nell'edizione originale), The Race e The Haystack Syndrome; a questi libri si
rimanda per un ulteriore approfondimento dell'argomento.
Con l'aiuto di uno schema semplificato di impianto
produttivo vedremo rapidamente nel seguito in che cosa consiste il DBR.
L'impianto "pilota" è molto semplice: ci sono 5
stazioni di lavoro (risorse) che in sequenza processano la materia prima che
viene rilasciata all'inizio della catena, e la passano alla stazione seguente
fino ad avere il prodotto finito. Nella realtà la catena non finisce qui ma
continua fino al cliente finale, per il momento limitiamoci ad un ambito
strettamente di produzione e quindi ipotizziamo che la catena termini con la
produzione del prodotto finito.
Le consuete pratiche di gestione della produzione prevedono
di rilasciare la materia prima, magari a lotti, di processarla tutta nella
prima stazione e al termine del lotto di produzione di passarla alla stazione
successiva, e così via fino ad ottenere il prodotto finito. Il tasso con il
quale viene rilasciata la materia prima viene spesse volte influenzato da un
certo numero di fattori quali la necessità di tenere occupate le stazioni di
lavoro (cioè gli impianti), la domanda complessiva di prodotto finito, la
dimensione degli ordini e altri fattori ancora. Ci sono però due elementi dai
quali non si può prescindere quando si stabilisce il tasso di rilascio (ovvero
la politica di rilascio) di materia prima: quello che chiede il mercato (la
cosiddetta domanda) e le misure che sono correntemente utilizzate
nell'impianto. Uno degli assunti di base delle pratiche di gestione della
produzione è che la capacità produttiva di ogni stazione di lavoro è la stessa.
Sappiamo però che anche in assenza di fluttuazioni statistiche potrebbe essere
difficile ottenere un bilanciamento perfetto tra le diverse stazioni di lavoro.
Inoltre nella realtà gli sbilanciamenti di capacità esistono e spesse volte
sono anche molto pronunciati. Questi sbilanciamenti combinati con le
fluttuazioni statistiche che si hanno in ogni processo fanno sì che
nell'impianto si formino code di semilavorati, in genere di fronte alle
macchine più lente. Uno degli assunti di base delle pratiche correnti è
sostanzialmente infondato. La TOC fonda la sua capacità di individuare
soluzioni breakthrough 8cioè soluzioni che facciano conseguire
all’organizzazione che le adotta un drastico miglioramento delle sue
performance) proprio nel sollevare sistematicamente gli assunti che stanno alla
base dei comportamenti e nel chiedersi costantemente se hanno senso.
Inseriamo nello schema del nostro impianto pilota la
capacità di ogni stazione di lavoro misurata in unità prodotte per giornata
lavorativa (pezzi/giorno).
E' ovvio che nelle realtà produttive le differenze di
capacità non saranno così marcate, ma questa considerazione non va a inficiare
la sostanza dei ragionamenti che ci apprestiamo a fare.
Nel nostro caso la macchina numero 4 è il constraint,
infatti è ovvio vedere che è la macchina più lenta della catena e quindi quella
che determina il tasso di produzione di prodotto finito e quindi, prescindendo
da tutte le considerazioni sul mercato (ricordiamo che stiamo assumendo che il
mercato assorba ogni prodotto che riusciamo a spedire), determina il risultato
complessivo dell'impianto.
Ne consegue logicamente che quello che transita dal
constraint dovrebbe essere allineato con la domanda del mercato e la
schedulazione delle operazioni dovrebbe essere sincronizzata con le date di
consegna richieste dai clienti. Questo fatto determina la schedulazione della
macchina constraint, che in gergo TOC viene chiamato DRUM.
Il ROPE è la connessione tra il rilascio della materia prima
e la schedulazione del drum.In poche parole il rilascio di nuova materia prima
(alla prima stazione di lavoro) deve avvenire non appena il materiale è
transitato per il constraint. In questo modo nell'impianto circola solo la quantità
di materiale necessaria ad alimentare il constraint. Tutte le macchine non
constraint devono solo processare il più velocemente possibile il materiale che
si trovano "davanti", e in questo modo siamo sicuri di aver
soddisfatto i requisiti complessivi della produzione: tempi di consegna,
quantità domandata.
Il terzo ingrediente della ricetta DBR è il cosiddetto
BUFFER. Il buffer in primo luogo è una quantità di tempo e non di materiale,
come normalmente si è portati a ritenere. In sostanza il BUFFER è la quantità
di tempo che intercorre tra il rilascio della materia prima alla stazione 1 e
la data di consegna interna a valle della macchina constraint, determinata
dalla schedulazione del DRUM. Nel nostro schema di impianto è la lunghezza
della linea produttiva (in tempo) dalla macchina 4 al rilascio della materia
prima.
Va poi considerato che essere capaci di garantire che il
materiale raggiunga il constraint nel tempo stabilito non è sufficiente, se non
si vende il prodotto finito non si otterranno utili, è necessario allora
assicurarsi, al fine di ottenere un profitto, che il prodotto finito arrivi al
cliente per tempo. C'è quindi un ulteriore elemento che deve essere determinato
e cioè quanto tempo ci vuole per muovere il materiale dal constraint al mercato
(possiamo dire che questo tempo è il vero time to market); questo tempo deve
essere adeguatamente bufferizzato, e lo si fa con il cosiddetto shipping
buffer.
In molti ambiti produttivi non è possibile identificare il
constraint così facilmente come abbiamo visto sopra. E’ dunque necessario usare
un approccio un po’ più raffinato, ma ugualmente efficace, disponendo
all’inizio solo un buffer (shipping buffer), che viene calcolato sulla base
delle date di consegna pattuite degli ordini dei clienti e del lead time
complessivo della linea produttiva.
Una volta stabilito il buffer, attraverso la gestione di
esso è possibile identificare il constraint interno e quindi schedulare la
produzione in accordo con esso.
Questa appena vista è una breve descrizione del meccanismo
fondamentale del DBR. Rimane un ultimo aspetto da affrontare, come far sì che i
miglioramenti conseguiti con l’implementazione del DBR non rimangano statici,
ma si inneschi un processo di miglioramento continuo. La risposta della TOC a questa
istanza consiste nei 5 passi del processo di focalizzazione, aspetto che è alla
base di ogni implementazione di drum buffer rope, insieme all’uso sistematico
dei TP-tools (cioè agli strumenti di pensiero sistemico. Questi elementi
forniscono il necessario grado di rigore scientifico all’analisi dei problemi e
permettono di identificare i constraint non fisici, come ad esempio politiche o
comportamenti.
I 5 passi di focalizzazione sono i seguenti:
Passo 1 – identificare il/i constraint(s) del sistema
Identificare significa che si ha già un’idea di quale sia il
fattore limitante le performance del sistema, la cosiddetta risorsa scarsa e si
decide da quale partire; in questo passo non è importante avere una lista di
constraint basata su qualche priorità, la lista dei candidati è molto molto
breve, prima o poi dovremo confrontarci con tutti.
Ci vuole l’abilità di determinare attraverso l’osservazione
e l’analisi dei dati (per una specifica introduzione alle tecniche di controllo
statistico di processo si rimanda al documento di riferimento) la risorsa
scarsa, che è il fattore limitante dell’impianto. Solo quando questa risorsa è
stata identificata è possibile sviluppare una schedulazione basata sul DRUM. In
gergo se la domanda del mercato è superiore alla capacità del constraint,
questo viene anche chiamato bottleneck. Per poter schedulare il drum occorre
conoscere il volume di prodotto richiesto giorno per giorno, e la distinta base
di ogni prodotto.
Passo 2 – decidere come sfruttare il constraint
Poiché il constraint è il fattore che limita le performance
non ci rimane che decidere come dobbiamo spremere dal constraint tutto quello
che può dare. Sfruttare è quello che si deve fare, nulla di più nulla di meno.
E se il constraint è esterno, cioè è il mercato – abbiamo abbastanza capacità
ma non abbastanza ordini? Allora sfruttare significa fare tutte le consegne in
tempo, non basta il 99%, ci vuole il 100%.
In ambito produttivo prima di fare qualsiasi altra cosa
occorre spremere dal constraint ogni minuto di processo. Questo ha delle ovvie
implicazioni sulle politiche di manutenzione, di ispezione qualità, ecc.
Cosa succede a tutti gli altri componenti il sistema?
Passo 3 – subordinare tutto il resto alla decisione presa al
passo 2
Il ruolo di una risorsa non-constraint è assicurare che il
constraint lavori nel modo migliore possibile in modo da massimizzare il
throughput. Ciò significa che tutti i processi, le interdipendenze del sistema
devono essere disegnati per ottimizzare il lavoro del constraint.
Se è il constraint che determina la capacità produttiva
complessiva dell’impianto (e anche il profitto, purché siamo nelle condizioni
che il mercato assorbe tutto quello che viene prodotto) nulla deve impedire a
questa capacità di venire meno. Per esempio il rilascio della materia prima
deve avvenire in accordo con la capacità della risorsa scarsa (constraint).
Questo implica che nell’impianto gira solo quanto serve per alimentare il
constraint (e quindi si riduce il wip al livello minimo per assicurare il
massimo di profittabilità dell’impianto, scendere ancora di wip metterebbe a
rischio la capacità produttiva del constraint e quindi metterebbe a rischio il
profitto).
A questo punto siamo sulla strada giusta, ma non basta
Passo 4 – elevare il constraint
Elevare significa aumentare la capacità del constraint.
Tutto quello che si poteva fare per ottimizzare il sistema è stato fatto, per
incrementare il throughput è necessario elevare il constraint (che può voler
dire più macchinari, più persone, ecc.).
Per rompere il constraint occorre aggiungere altre macchine
o convertire le macchine presenti. E’ molto importante evitare che il
constraint si sposti per effetto dell’aumento della capacità produttiva del
constraint originale. Quindi l’azione di elevamento del constraint deve essere
accompagnata da un’azione di elevamento della capacità degli elementi che
alimentano il constraint stesso.
Passo 5 – Se nel passo precedente il constraint è stato
rotto ritornare al passo 1
Questo passo è fondamentale per non farsi prendere
dall’inerzia, Goldratt dice che se tu ti dimentichi del constraint esso non si
dimentica mai di te!
Quando si tenta di mettere in pratica questo approccio, ci
si trova di fronte un conflitto, quasi inevitabilmente. Le misure che
comunemente vengono utilizzate dal management per valutare le prestazioni di un
impianto fanno a pugni con la necessità di soddisfare i requisiti dei clienti.
Il management trova molto difficile subordinare le azioni al conseguimento
dell’obiettivo (cioè sul constraint), cercando di prestare uguale attenzione
alle mille difficoltà e problemi che si presentano ogni giorno nell’impianto;
l’assunto che sostiene che questo atteggiamento è esprimibile così: per
ottenere l’ottimo globale occorre raggiungere tutta una serie di ottimi locali.
MA QUESTA E' TUTTA UN'ALTRA STORIA, AL PROSSIMO EPISODIO
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