Sembra
che tutti siano d’accordo nel dire che il lavoro di squadra è una buona idea.
Sicuramente ci credono sia i presidenti che gli allenatori delle squadre
sportive (Inter fa eccezione ndr) . E, senza dubbio, ci credono anche i dirigenti ed i manager di molte
delle grandi aziende americane. Le persone migliorano in efficacia quando
lavorano in team rispetto a come si comportano quando sono individui isolati.
Le persone che hanno un obiettivo comune pensano che lavorare in team sia molto
vantaggioso.
Ma
cosa possiamo dire quando parliamo delle aziende? Se il lavoro di squadra è una
idea formidabile per i singoli individui, non può essere una buona idea
applicarlo alle organizzazioni? Dopo tutto, le aziende non possono essere viste
come somma di gruppi organizzati? Secondo la Teoria dei Constraints possiamo
considerarle in questo modo. L’ufficio commerciale può realizzare una vendita,
ma senza la cooperazione del magazzino il cliente non riceverà mai la merce.
Senza la collaborazione della produzione non ci sarebbero prodotti da vendere.
Senza l’opportuno contributo dei progettisti, la produzione non avrebbe nulla
da costruire. Allora, creare un lavoro di squadra tra gli organismi che formano
una azienda non solo è una cosa desiderabile, ma è una condizione assolutamente
necessaria per avere successo.
Ma,
se ci possono essere similitudini tra le squadre sportive professioniste e le
aziende, ci sono anche delle differenze. Nel caso della azienda, nessuno resta
in panchina. Non ci sono giocatori di riserva. L’azienda comprende solo quegli
organismi che gli sono assolutamente necessari per competere con successo. Ad
esempio, non ci sono uffici vendite alternativi che restano in attesa di
entrare in gioco quando si presenta l’opportunità. Come non ci sono impianti di
produzione di riserva che aspettano di essere messi in funzione. Una azienda
competitiva include solo quegli organismi che gli sono necessari e sufficienti
al fine di competere con successo, perché il costo di avere sostituti sarebbe
un fardello insopportabile per il resto della squadra.
Questo
è un problema? Di solito no, non è un problema. Comunque non ci sono
alternative nell’avere solo i giocatori necessari. Ma se l’azienda di successo
ha solo le risorse necessarie e sufficienti per lo svolgimento della sua
attività, che cosa succede se anche una sola di queste risorse non fa la sua
parte? Per la Teoria dei Constraints, la risposta più ovvia è anche quella
corretta. L’intero team, l’azienda, fallisce nel proprio intento.
Per
questa ragione, la Teoria dei Constraints ci dice che la misura con cui si
valuta ciascun membro di qualunque organismo che compone l’azienda deve essere
basata sul contributo che l’organismo stesso fornisce al raggiungimento dei
risultati aziendali. Ad esempio, consideriamo l’effetto di giudicare le
prestazioni di uno stabilimento sulla base dei chilogrammi di prodotto che lo
stabilimento produce, senza considerare se sta producendo il mix corretto di
prodotti. Molto probabilmente lo stabilimento riesce a lavorare a pieno regime.
Se rispettiamo questo metodo di misura per la valutazione, lo stabilimento
apparirà eccellente non appena produrrà a tutto spiano. Allora questa
organizzazione misurata in questo modo distorto, non troverà nulla di sbagliato
nel riempire i magazzini della azienda a cui appartiene di prodotti anche se
non sono richiesti dai clienti, l’importante sarà produrre a pieno regime. Nel
contempo parecchi ordini dei clienti resteranno inevasi, perché i prodotti
necessari non sono realizzati nelle giuste quantità. Questa organizzazione non
potrà essere tollerata a lungo, perché le sue prestazioni inappropriate
distruggono la profittabilità dell’intera azienda.
Al
contrario, consideriamo gli effetti di legare il premio per le prestazioni
della nostra fabbrica al valore (per l’azienda che la possiede) delle vendite
che questo stabilimento contribuisce a far raggiungere all’intera azienda.
Consideriamo, anche, l’effetto derivante dal sottrarre dalla misura di
valutazione delle prestazioni il valore delle vendite che hanno generato
richieste di interventi in garanzia, così come il valore dell’invenduto o delle
materie prime in giacenza.
Non avremmo così una fabbrica motivata a produrre
solo quanto richiesto dai clienti e quando lo chiedono i clienti? Probabilmente
si.
Non avremmo così una fabbrica motivata a produrre solo prodotti
qualitativamente competitivi? Probabilmente si.
Le prestazioni di una simile
organizzazione del lavoro inciderebbero sulle prestazioni dell’intera azienda
in modo negativo oppure in modo così positivo al punto di migliorarle? È più
che certo che le prestazioni dell’intera azienda migliorerebbero, perché la
misura di valutazione delle proprie prestazioni sarebbe direttamente connessa
alle prestazioni dell’intera azienda. Lo stabilimento subirebbe ripercussioni
negative se l’intera azienda conseguisse risultati negativi. Allo stesso modo
lo stabilimento lavorerebbe bene se aiutasse l’azienda a ottenere risultati.
La
Teoria dei Constraints ci dice dunque che dobbiamo pensare l’azienda non come
un insieme di reparti che agiscono individualmente ma come una fitta trama di
organismi che hanno l’obiettivo comune di far sì che sia l’azienda a vincere.
Se ci fermiamo a pensare un attimo, la Teoria dei Constraints è poco più che
buon senso (questa frase non tragga in inganno, il "poco più" del buon senso è comunue una radicale tarsformazione rispetto al modello tradizionale - ndr).
Ma dobbiamo considerare proprio questo, dobbiamo capire che è
questo tipo di buon senso che fa la differenza tra un futuro sorridente ed una
marcia forzata verso la rovina.
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